Raccontare Israele è come fare un riassunto delle puntate precedenti, un ripercorrere all’indietro tutte le tappe della nostra storia, della nostra cultura, della nostra civiltà. In ogni istante del viaggio ci tornano in mente esperienze, conoscenze recondite della nostra vita, immagini conservate nei cassetti dei nostri ricordi e che affiorano prepotentemente all’improvviso come un film rivisto e rivissuto mille volte.
Per chi crede, non importa quale nome possa avere il proprio Dio, è “il” luogo sacro per eccellenza, la terra che ha consentito all’uomo di entrare in contatto fisico con la propria divinità. Per chi non crede è comunque un’esperienza unica, una tentazione, una sensazione che segna dentro, in qualche modo, indelebilmente.
Israele è l’apoteosi delle contraddizioni, l’esempio più lampante di quanto l’uomo possa essere stato (e sia ancora) assolutamente irrazionale e intollerante, nei rapporti con i propri simili, nell’assurda altalenanza della sua “breve” storia. E’ la terra dove il tempo si è fermato, dove certi valori sono ancora incredibilmente forti e radicati nella gente, oggi esattamente come 2000 o 3000 anni fa.
Israele, la Palestina, tutto il Medio Oriente: sono i luoghi in cui la gente afferma la propria essenza ogni giorno, dove ci si riconosce e si manifesta la propria identità già nel modo di vestire, di parlare, di scrivere, di mangiare, di pregare in ogni istante della giornata, anche se questo potrebbe, in qualche modo, mettere a rischio perfino la propria esistenza.
E’ Mediterraneo in tutta la sua franchezza, nei suoi tipici colori, nei suoni, nei profumi, nei sapori. E’ una terra antica e modernissima allo stesso tempo, dove la storia ha dovuto combattere a denti stretti per poter testimoniare un passato spesso cancellato dal susseguirsi delle dominazioni. Ebrei, musulmani, cristiani, ortodossi si sono alternati al tavolo del potere, cercando invano, ogni volta, di annientare anche il ricordo di chi li aveva preceduti. E il risultato oggi è quello che si vive ogni giorno entrando a Gerusalemme: una grande Babele, quello che tutti considerano il centro dell’Universo, conteso da tutte le civiltà ed in cui confluiscono tutte le fedi, religiose e politiche.
Non entro nel merito di chi ha torto o ha ragione, di chi si comporta "oggi" da persecutore o da perseguitato, ma basta fare un giro tra le strade millenarie che collegano Haifa a Tel Aviv, Tiberiade a Gerusalemme, per capire che non esiste un oggi e un ieri, il tempo qui sembra si sia fermato e le vicende continuano ad accadere sovrapponendosi e complicandosi in mille mondi paralleli. Cause ed effetti si sono intrecciati al punto che non siamo più in grado di giudicare il comportamento di nessuno.
Allora ognuno ha il diritto di guardare ad Israele soltanto con i propri occhi, possibilmente con l'apertura mentale di dover accettare che le proprie convinzioni più intime e segrete possano essere sbeffeggiate e violentate da chi accanto a noi la pensa diversamente.
E' vero, il timore di trovarsi di fronte ad incidenti, prima del viaggio, c'era, ma si è completamente dissolto appena messo piede in questa terra di confine. Dopo le poche ore passate ad osservare ebrei e musulmani, israeliani e palestinesi che convivono a stretto contatto, con ruoli diversi, negli stessi luoghi fisici, ma lontani anni luce per come concepiscono la loro esistenza, siamo sommersi dallo stupore, da una incredulità totale, nel constatare che in fondo la convivenza è molto più tranquilla di quanto si potesse immaginare.
Ovunque, soprattutto nelle zone d'entroterra, lungo le superstrade che collegano le città più importanti, capita di osservare una distribuzione a macchia di leopardo di centri abitati dalle caratteristiche diametralmente opposte. Sulla sinistra un paese in bianco e nero, palesemente arretrato, diroccato, case bianche, basse, senza tetto, rifinite per quanto appena necessario, povere ed essenziali, sovrastate da un severo minareto. Sulla destra, separato soltanto dalla strada che percorriamo, un paese moderno, pulito, coloratissimo, con deliziose villette a schiera all'americana, tantissimo verde e tetti spioventi rossi fiammanti. Differenze che altrove di riscontrano soltanto dopo centinaia o migliaia di chilometri di cammino, qui si evidenziano a distanza di pochi metri.
Cosa dire di più? Per i nostri occhi di cristiani/cattolici romani questa resta la Terra Santa, il luogo che ha avuto la Grazia di essere calpestato dai piedi del Nostro Signore, il terreno che si è intriso del Suo sangue, le pietre che hanno ascoltato la Sua Parola. Sono sensazioni indescrivibili quelle che abbiamo provato in Galilea, ai piedi delle alture del Golan, sfiorando le rocce del Monte delle Beatitudini, l'acqua del Mare di Galilea, quella su cui Gesù ha vissuto e si è rivelato al mondo con i suoi prodigi e le sue parabole, dove incontrò gli Apostoli e dove tornò dopo la Risurrezione. La Galilea è la Sua terra, la Nostra terra.
Una sensazione nettamente diversa, invece, si prova a Gerusalemme. Crocevia del mondo, è il luogo dove tutti si affannano a dimostrare di avere l'esclusiva sulla storia e sulle tradizioni, sul corpo e sull'anima. I luoghi in cui Gesù ha sofferto la sua passione e morte, sono distrattamente contrastati, offuscati, dalla presenza soffocante degli altri, degli ebrei, dei musulmani, delle mille divisioni intestine della stessa tradizione cristiana. Allora ci si trova sbattuti da un vicolo all'altro, da una chiesa ad una sinagoga, da una moschea ad un mausoleo ortodosso senza soluzione di continuità, in una inebriante indigestione di sapori, colori, suoni e profumi.
Camminando tra gli stretti vicoli della Città Vecchia, sembra all'improvviso di trovarsi a bordo di in una macchina del tempo e dello spazio. Ci si trova contemporaneamente nella Gerusalemme intatta di 2000 anni fa, costruita dalle stesse pietre che videro cadere Gesù sotto il peso della Croce ed in quella tecnologica dei grattacieli, dei telefonini e delle auto di grossa cilindrata. Se su un marciapiede capita di incontrare un gruppo di sfacciate turiste americane in T-shirt, minigonne e infradito, sullo stesso marciapiede, qualche metro più in là, ci si imbatte in lunghi abiti neri che lasciano scoperti soltanto dei magnifici occhi color nocciola. In un vicolo capita di vedere una lunga fila di bugigattoli stracolmi di stoffe, di spezie e di improbabili souvenir made in Cina, girato l'angolo ci si trova in una elegante via di negozi ebrei, di gioiellerie e di ricchi quadri autentici. Il quartiere cristiano, invece, è qualcosa di intermedio, che guarda in tutte e tre le direzioni, rinunciando spesso alla propria identità, in nome del dio Denaro.
Così dal vivo si capiscono molte cose, molti discorsi che fece Gesù tanti secoli fa, ma sempre così attuali. Capisco quanto si arrabbiò quando vide il Tempio invaso dagli ambulanti, quello stesso tempio che oggi, dopo mille distruzioni, è diventato una immensa Moschea. E' uno dei tantissimi paradossi di Gerusalemme, infatti proprio uno dei muri che circondano quella moschea è il Muro del Pianto, dove vengono a pregare tutti gli ebrei col capo coperto. Altro paradosso è quello del Monte Sion, il luogo che gli ebrei considerano l'origine della loro civiltà, dove è conservata la Tomba del Re Davide, stesso edificio in cui, secondo la tradizione cristiana, Gesù, discendente di Davide, tenne la sua Ultima Cena.
Ho visto Israele con gli occhi di un cristiano, anche se non sono stato un classico pellegrino. Ho visto Israele con gli occhi di un discendente dell'Antica Roma che un tempo dominava questi luoghi e che costruì città splendide come Cesarea, sul litorale tra Tel Aviv e Haifa o di uno di quei Crociati che non furono molto dolci con i Saraceni. Ho anche avuto orecchie per ascoltare la versione degli ebrei, primi e ultimi in questa terra così contesa. Ho capito quali possono essere i sentimenti che molti ebrei nutrono per il loro nemico ancestrale, quello che si identifica storicamente nei cultori dell'Islam. Purtroppo, invece, non ho avuto la possibilità di ascoltare la voce dei musulmani, soprattutto dei palestinesi. Ho soltanto visto i loro occhi stanchi, nei quartieri periferici di Gerusalemme, come quelli che si estendono sul Monte degli Ulivi, quartieri solo per uomini e bambini maschi, dove le donne rimangono chiuse nell'ignoranza delle loro pareti domestiche. Troppo poco per capire, troppo poco che comprendere la loro situazione di stranieri "tollerati" in quella che considerano giustamente la loro terra.
Ma la parola "giustizia", da queste parti, assume una dimensione non più misurabile, che cambia forma e lunghezza a seconda degli occhi che la osservano e della lingua che la descrive. Troppo difficile per essere compresa.